Pubblicazione del libro Demetra Iblea

James Frazer, nel suo monumentale Il ramo d’oro. Studio sulla magia e religione, opera quanto mai fondante della ricerca etno-antropologica, inizia la sua indagine sugli usi e costumi dei tanti popoli che esplorerà, da due narrazioni molto diverse fra loro: una narra della discesa di Enea nell’Ade che, secondo il consiglio della Sibilla, si procurò un ramo d’oro prima del suo viaggio negli inferi per consentirgli un sicuro ritorno; l’altra riguarda l’antico mito protostorico dell’uccisione del re nel bosco di Nemi, un luogo al centro dei romani Colli Albani, dove sorgeva un tempio dedicato a Diana.

 

Lì la dea ha tessuto la sua tela divina per gli uomini, fatta di miti e di leggende, di poesia e di canti. Lì la dea trova l’origine di tutto perché vi si ritrova, in quel bosco, ogni elemento della natura (l’albero, il vento, la luce il colore, l’acqua) e dunque da lì parte prima il mito che fonda il mondo e poi la storia che lo spiega.

La stessa cosa – si parva licet componere magnis – mi sembra che abbia fatto Turi Volanti in questo suo itinerario frastagliato di incantamenti e di suggestioni che già nel titolo ha il suo fascinoso programma: Demetra Iblea.

Qui si esplora un territorio preciso, la punta meridionale siciliana, in cui mito e storia s’intrecciano come in una corda che lega passato e presente, e in cui la vita stessa di uomini e di animali diventa sorte e destino.

Con una prosa leggera, elegante, rotonda e sinuosa per le sue innumerevoli soste narrative fatte di esclamazioni e di pensamenti, Volanti ci conduce per mano alla scoperta non di città e di luoghi turistici ma di terre assolate e dure, di fiumi che giocano a nascondino, di grotte che forano le rupi, di alberi antichi e simbolici, di lavoro e di sangue sparso sulle zolle e sui crepacci dei monti. Sono gli Iblei, mio caro! I sacri monti che contornano questa parte di Sicilia e che ci raccontano ancora le antiche leggende di Demetra e Core, di Anapo e Ciane, di Alfeo e Aretusa. Ma anche la più prosaica storia di antiche e recenti battaglie, da quella dei siracusani contro gli ateniesi prima e contro i romani poi fino alla disillusione popolare per la costante negazione delle terre da coltivare e l’illusoria speranza portata dall’emigrazione.

Noi siamo la terra e la terra è in noi! Essa è il mito e la storia, la gioia della festa e il sacrificio del lavoro. Scrive Volanti: “A volte mi vien da pensare (ma l’ho sempre pensato) che uomini, storia e cose siano attraversati da uno stesso destino e insieme coinvolti in un’unica rappresentazione sulla scena del territorio.” Entriamo dunque, sapientemente accompagnati dallo scrittore-poeta-pittore floridiano, sulla scena di questo territorio e cerchiamo di capire l’essenza delle cose che incontreremo.

L’opera è divisa in quattordici “cose” o meglio sarebbe da dire “entità”, per quel carico metafisico che possiedono: il mandorlo, l’ulivo, il ficodindia, il carrubo, l’asfodelo e poi i monti Climiti, i muri a secco, Pantalica, il papiro, l’Anapo ecc. Di ognuna di queste “entità” si narra, con cenni e illuminazioni varie, il mito di riferimento e la storia, la provenienza e la presenza nel territorio, l’acquiescenza sentimentale ed erotica per la presenza di fanciulle, di ninfe, di divinità silvestri e terrestri, di acque lustrali e di abbandoni esistenziali. Tutto è immerso in una fabulazione senza tempo e senza necessari cordoni ombelicali: si procede per incanti e per emozioni poetiche. È appunto la poesia che lega il tutto, non solo la metrica che spesso fa capolino fra le righe che si spezzano in versi ritmati, ma la meraviglia e l’emozione che diventano fascino del luogo e sacra rappresentazione.

Queste quattordici stazioni di una personale via Crucis che qui diventa strada mitopoietica comincia e finisce con una pianta e un fiore: il mandorlo e l’asfodelo.

Il mandorlo appartiene al mito e alla natura come nessun altro vegetale: al mito perché -scrive Volanti – “è la pianta della fecondità femminile (…) a cui Era, moglie di Zeus, presiedeva quale personificazione divina”; alla natura perché – scrive sempre Volanti – “Le crepe del suo tronco sono un brulicante rifugio di cannibalesche formiche; e le foglie di acari alati fastidiosissimi…”. E la mandorla non è forse, in tutte le culture, il simbolo della verginità, della purezza e dell’amore? E Volanti si lascia andare a una descrizione stupenda del frutto: “Pare offrirsi inverecondo ai tuoi occhi, sbozzolandosi per liberarsi dal mallo carnoso e vellutato; e scoprirsi dallo spacco ombrato la drupa d’oro antico, a volte cosparsa di un secreto mieloso…”.

Queste descrizioni sono oasi letterarie dove ritrovi la frescura della scienza e della poesia e sono cosparse ovunque, nelle pagine dello scrittore ibleo, come il timo e il mirto e la nepitella cospargono i cozza del nostro paesaggio. Profumi e colori che danno alla terra il sapore divino del mito e dell’arcadia pastorale.

Così è anche per l’asfodelo, “fiore dei morti e del dio dell’Averno”. Lo puoi trovare dappertutto “frammisto a cardi spini asparagi eringi, domina come un piccolo popolo vegetale pallido, destinato in breve tempo a rinsecchire” (Volanti).

La simbologia della morte, o almeno il rimando del fiore all’ineluttabilità del nostro destino, suscita nel poeta-scrittore l’abbandono all’immaginazione (Lei sola l’eletta a penetrare nel buio e a far fiorire il deserto dell’ignoranza). L’immaginazione, scrive Volanti, “Mi pare che si muova con una lanterna dentro la mia ombra, suscitando ombre creature anime divinità: una luce che sconvolge la caverna e agita il sonno delle cose.”

Fra questi due estremi, il mandorlo simbolo della vita e l’asfodelo simbolo della morte, si snoda il cammino di Volanti fra le pietre del territorio ibleo. Se lo segui con attenzione ti accorgi che la natura delle cose ha una sua propria sacralità e che il mito, la poesia, la storia e tutto il resto non sono altro che strumenti di lettura d’una realtà ricchissima di secoli e di esperienze; ma l’essenza di questa realtà appartiene alla dimensione del sacro, non importa se pagano o cristiano o di entrambi. Non compaiono, nella scrittura di Volanti i termini ecologia, ordine ambientale, pulizia del territorio ecc. Questi termini appartengono a una modernità utilitaristica e politica non al sacro, il quale indica lo spazio in cui la divinità si manifesta.

Questa epifania non puoi offenderla col tuo ignorante passaggio, non puoi deturparla perché appartiene alla Bellezza Ideale, non puoi ignorarla perché è Presenza Primaria di ogni storia umana. Essa è la Terra, la Natura, il Creato ovvero la manifestazione del Dio che ci ama.

Solo l’arte può timidamente avvicinarsi a questa sacralità, perché “L’arte è la più necessaria e sublime delle menzogne, e quindi, per suo paradosso, vicinissima alla verità” (Volanti).

Tutto ciò ha una sua rispondenza anche nel registro linguistico, perché la lingua deve adattarsi al discorso, secondo gli insegnamenti dell’antica retorica.

Quindi la ricercatezza e l’appropriatezza dei termini sono la forza di questa prosa dal ritmo sinuoso e dolce; appartengono a una stilistica colta e suggestiva, come oggi è veramente difficile trovarne. C’è in queste pagine non solo il rimando poetico e mitologico ma anche un sentimento popolare e naturalistico che traspare nelle descrizioni e nelle storie raccontate. Tuttavia, non so perché, questa scrittura ha un piglio aristocratico, un registro solenne e metapoetico, una narrazione impastata di immaginazione, scienza, storia, mito e poesia. Appartiene a quel gusto classico che abbiamo dimenticato e che a ritrovarlo, oggi, ci restituisce l’antico fascino della buona lettura.

Corrado Di Pietro

 

Turi Volanti. Demetra Iblea. Ed. Centro Studi Arti e Scienze Il Cerchio – Siracusa, 2016

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